Scheda e bibliografia storica sul Patriarcato
[Fonte: BeWeb]
Secondo il Chronicon Gradense, nel 579 il patriarca Elia di Grado con vescovi e popolo avrebbero stabilito la fondazione di diverse sedi vescovili, di cui sei nella laguna veneziana: Torcello, che in precedenza aveva sede ad Altino, Malamocco, Olivolo, Iesolo, Eracliana, Caorle.
In un documento del settembre 1074 sono nuovamente ricordate la chiesa patriarcale di Grado con i vescovati citati, per cui anche non prestando valore alla notizia della cronaca citata non v’erano allora dubbi sull’organizzazione ecclesiastica del dogado veneziano.
Resosi ormai indipendente da Bisanzio, esso aveva una propria diocesi nell’isola di Olivolo o Castello, che peraltro ricomprendeva anche le isole centrali della futura Venezia.
Con la fuga degli abitanti verso le isole della laguna di fronte ai longobardi, le cronache ricordano la fuga dei padovani a Malamocco e Andrea Dandolo dirà sino a Rialto e Olivolo, precisando che queste isole dipendevano dal vescovo di Malamocco, per cui prima della costituzione del vescovato di Olivolo per la laguna veneziana occorre pensare a una doppia giurisdizione ecclesiastica: Altino da un lato e Malamocco dall’altro.
Sempre secondo le cronache il duca bizantino di Malamocco, Beato, con tribuni e nobili, si era recato dal papa Benedetto (574-578) per chiedergli di costituire il castello di Grado come «nova Aquileia», creandolo nel contempo sede metropolitana «di tutta la Venezia e dell’Istria», segno che si voleva risistemare ecclesiasticamente la regione.
A Olivolo/Castello, presso il «castron» bizantino dove il patriarca di Grado avrebbe ordinato di edificare una grande chiesa e di costruirvi l’episcopio, doveva essersi già insediata la popolazione delle isole e del litorale con un vescovo.
Ancora verso la fine del IX sec., nei documenti vengono ricordati i due soli vescovati di Grado e di Olivolo, ma non si parla di un vescovo di Venezia.
Intanto in città sorgevano le prime parrocchie, dedicate alla Madonna, agli apostoli oppure a santi locali o dell’Antico Testamento, caratteristica presente a Costantinopoli.
Il territorio della parrocchia veniva accettato anche come divisione civile e veniva identificato con il termine «de confinio »; i parroci erano scelti dai capifamiglia della zona e dal XIV . anche i vescovi e più tardi i patriarchi venivano scelti con una votazione («proba») in senato, cui la Sede romana difficilmente poteva interferire.
Dall’XI sec. i vescovi di Olivolo erano indicati anche come vescovi di Castello, e la loro autorità andava estendendosi sulle chiese della città, talora in conflitto con talune altre di giurisdizione diretta del patriarca di Grado ivi residente, ottenendo nel contempo privilegi pontifici per assicurare la propria giurisdizione.
Il vescovato di Venezia, nato più tardi da quello olivolense- castellano, aveva come centro ideale san Marco, in onore del quale si costruì per tre volte la basilica omonima, cappella ducale: essa era simbolo di indipendenza politica e patrocinio che oscurava quello precedente bizantino di san Teodoro.
Nella vita ecclesiastica, come in quella civile maturavano allora due tendenze contrastanti, una filo-bizantina ed un’altra filo-carolingia, mentre al di là degli scontri si sarebbe giunti a una terza tendenza, per dir così, nazionalistica, che porterà all’indipendenza e all’acquisizione di un proprio santo patrono.
L’influsso bizantino era comunque il prevalente, rimasto nel fondo delle antiche tradizioni, come anche nei culti praticati nelle chiese della laguna: alla Theotokos o a santi bizantini come Sergio e Bacco, Teodoro, Menna e, quindi, a Pietro, Giovanni Battista, o a martiri locali come Giustina, prima di altri come Lorenzo o Mosè con i profeti dell’Antico Testamento.
Il culto ufficiale, politico si potrebbe dire, con l’VIII sec. sarà però per Marco, patrono del ducato.
Oltre a chiese intitolate a santi greci, espressione probabile della religiosità di funzionari bizantini, di cui l’esempio più chiaro è quello di Torcello, se ne trovano altre, in particolare quelle fondate dal prete Mauro nella laguna e dedicate al Santissimo Salvatore, a Santa Maria Mater Domini, San Pietro, Santa Giustina: tutte espressione di una religiosità profonda e permeata dal sacro.
Prova della spiritualità lagunare saranno anche gli insediamenti monastici di provenienza benedettina, come San Servolo, anteriore all’819 e trasformato poi nel monastero dei Santi Ilario e Benedetto, di fondazione ducale sulla base di una prassi consolidata a Bisanzio e pertanto esente dalla giurisdizione patriarcale o vescovile; altri monasteri erano al margine della laguna.
Notissimo monastero femminile era quello di San Zaccaria, fondazione del doge Giustiniano Particiaco, mentre quello di San Lorenzo era collegato alla nobile famiglia dei Badoer.
Lo spirito cluniacense di totale autonomia monastica cominciava a imporsi e probabilmente emerge anche nella carta di fondazione dell’abbazia di San Giorgio Maggiore (982).
Questo era solamente l’inizio di una promettente fioritura monastica veneziana: fino all’anno Mille sono state contate tredici fondazioni e altre quarantasette fino a tutto il Duecento, con punte massime nella prima metà del XII . per quelle maschili, per poi decrescere, e nella prima metà del XIII per le fondazioni femminili, in crescita specie nel tardo Medioevo.
In tale quadro di vita religiosa non va dimenticata la realtà delle chiese o cappelle private, vanto di famiglie singole o di gruppi di famiglie, con propri cappellani e una propria giurisdizione con diritti di giuspatronato.
Problema solitamente acuto era quello delle nomine vescovili, cui Venezia mai derogava dal provvedervi: veneziani erano certamente i vescovi della città e più tardi dei domini d’oltremare e di terraferma, diventando parte integrante delle isole e del loro reggimento.
Nel Due e Trecento le parrocchie andavano sistemandosi nelle relazioni reciproche e con le chiese filiali; alla fine del Trecento nella diocesi di Castello si contavano settanta chiese parrocchiali, di cui sette conventuali, la cattedrale di San Pietro e la basilica di San Marco.
Attorno a tali chiese si muoveva tutta una religiosità popolare con espressioni diverse a seconda dei vari ceti.
La basilica di San Marco, cappella ducale con cerimoniale di origini bizantine, con clero proprio e propria gerarchia, attirava la folla e la devozionalità veneziana, presente anche nelle confraternite del clero (cinque nel 1123, nove nel 1291) con funzioni sociali e spirituali (assistenza agli ammalati, preghiere per i defunti, incontri periodici ecc.), e ancor più nelle scuole di arti e mestieri e di devozione, vera ossatura del cristianesimo cittadino laicale.
Lungo il Duecento se ne sono contate trentadue del primo tipo e otto del secondo; nel Trecento queste giungevano a cinquanta, mentre le prime a cinquantanove: la loro attività era centrata sulla pratica delle opere di carità, attenta alle necessità di poveri, ammalati, orfani; la presenza del cappellano tutelava la pratica della vita cristiana.
La Chiesa veneziana ebbe un notevole sviluppo nel Duecento con gli ordini mendicanti, però già nei primi decenni del secolo precedente v’era stato un risveglio religioso a opera dei canonici regolari con la fondazione di almeno sei sedi.
A differenza dei canonici secolari, essi costituivano un vero e proprio ordine religioso, con un più marcato profilo pastorale, coltivando predicazione e amministrazione dei sacramenti con contemplazione e vita comunitaria.
Furono gli ordini mendicanti a dare una spinta nuova all’evangelizzazione, soprattutto tra le classi emergenti, influendo positivamente nella religiosità della città e del ducato.
Nel sinodo diocesano del 1288 si nota un tessuto morale abbastanza sano; il vescovo Bartolomeo Querini insisteva sullo svolgimento ordinato dei riti liturgici, sulla celebrazione di sante messe per matrimoni e funerali, sul viatico agli ammalati e l’assistenza pastorale in genere.
Nel concilio provinciale di Grado (1296) e in altri sinodi successivi (1321, 1327, 1330, 1374) emerge la consueta normativa per la liturgia (un calendario liturgico veneziano sembra attestato già nell’XI sec.), la celebrazione delle sante messe, la condotta morale degli ecclesiastici, gli obblighi matrimoniali per i laici.
Fin dal 1233 fu ceduta ai francescani l’isola dove san Francesco sarebbe approdato di ritorno dalla Terrasanta; i primi due loro conventi furono Santa Maria Gloriosa dei Frari e San Francesco della Vigna.
Coeva fu la venuta dei domenicani, ai quali nel 1234 il doge con amministrazione e popolo donarono il terreno dove sarebbe sorto il complesso dei Santi Giovanni e Paolo.
Negli ultimi decenni del secolo erano presenti anche carmelitani ed eremiti di sant’Agostino.
Mentre nel Trecento la consistenza dei grandi ordini religiosi, pur con la ricostruzione delle loro note chiese, subiva un periodo di crisi, si affermavano invece sempre più le scuole laicali di devozione, segno della persistenza in città degli ideali religiosi.
Quello fu anche il secolo della grande peste che falcidiò da uno a due terzi della popolazione della città, con la fuga dei sopravvissuti, fatto che induce a pensare a uno spopolamento anche delle comunità religiose e la riduzione numerica dei monasteri e dei loro membri.
Mentre il papato era ritirato ad Avignone e si sviluppava il grande scisma, Venezia tentava nuove vie di ripresa con i vari movimenti dell’«osservanza», che cercavano il rinnovamento tornando alle forme primitive di vita religiosa (Giovanni Dominici).
Durante il grande scisma, fino al 1409 Venezia restò fedele all’obbedienza romana, forse anche per avere un veneziano al soglio pontificio (Gregorio XII); dopo un altro pontefice veneziano (Eugenio IV), con l’elezione di Martino V (1417) la città si riprendeva dallo stato di confusione.
Dal punto di vista ecclesiastico, la città era ancora soggetta al vescovo di Castello, che dal 1440 si firmava «episcopus Venetiarum », ed era suffraganeo del patriarca di Grado, che già nel 1156 risiedeva in città a San Silvestro, e aveva sotto la propria giurisdizione cinque parrocchie e altre due chiese.
Dal punto di vista civile, nel 1420 i veneziani entravano nella stato patriarcale di Aquileia, per cui gran parte di quel territorio finiva sotto la Serenissima, ma nonostante che nel 1440 a Grado fosse stata incorporata anche la diocesi di Cittanova Eracliana, l’aumento della popolazione era stato di poco più di un migliaio di persone.
Il patriarcato di Grado contava allora una decina di parrocchie, sparse e non collegate tra loro territorialmente, per cui al fine di aumentare la dignità del vescovo di Venezia, l’8 ottobre 1451 papa Niccolò V lo sopprimeva e così la diocesi di Castello, erigendo in quella sede il patriarcato di Venezia.
In tal modo, oltre le parrocchie «gradesi» della città, Venezia ne acquisiva poche altre, a Grado e nell’entroterra veneto per un totale di circa 20.000 anime, di cui 10.000 a Venezia.
La ripresa a Venezia della vita religiosa la si ebbe con la riforma degli ordini religiosi, intesa come un ritorno alla vita cristiana primitiva.
In tale ambito va segnalata la nuova congregazione religiosa sorta in città agli inizi del Quattrocento, quella dei canonici regolari di san Giorgio in Alga, di cui fece parte anche Lorenzo Giustiniani, santo e primo patriarca di Venezia.
Un piccolo gruppo di nobili venne accolto nell’isola di San Giorgio in Alga: nell’ottobre 1404 essi decidevano di fondare una nuova congregazione basata su vita e preghiera in comune, meditazione e cura spirituale, con la caratteristica di essere canonici secolari.
Particolarmente importante sarà san Lorenzo Giustiniani, ricordato per aver ridato nuovo spirito alla diocesi e al patriarcato, con la celebrazione di un sinodo, la riforma del capitolo della cattedrale, l’istituzione di un collegio di chierici poveri; egli risanò monasteri decaduti, rialzando la disciplina del clero, restando in continuo contatto con la popolazione in cerca di aiuti spirituali e materiali.
La ventina di monasteri osservanti veneziani, alla sua morte erano trentacinque.
La città contava allora poco più di 200.000 abitanti, di cui circa 5000 tra preti, frati e suore: alla sua morte la diocesi contava cinquantanove parrocchie in città e una ventina di chiese non parrocchiali, cinque ordini femminili con diciotto monasteri e ventidue maschili con trentuno monasteri e conventi.
Quale sia stato l’influsso di tale movimento e del santo patriarca in città è difficile dirlo, ma per l’ambiente religioso che ha alimentato si è parlato di riforma cattolica, anticipando il movimento di ripresa uscito dal concilio di Trento.
Già nei primi decenni del Cinquecento si nota infatti a Venezia una vera fioritura di personalità di un certo rilievo (Gaspare Contarini); importante sarà pure il Libellus ad Leonem X di Tommaso Giustiniani e Vincenzo Querini, nel quale si criticavano i difetti del momento, proponendo rimedi.
La città era particolarmente sensibile agli stimoli dell’evangelismo propagandato dai protestanti: il frequente commercio con la Germania, la folta presenza di studenti tedeschi all’università di Padova, la tolleranza della signoria per non intralciare i buoni affari, avevano favorito la diffusione delle prime avvisaglie luterane.
In città allora non mancavano certo opere dettate da un sincero spirito evangelico. Basti ricordare san Gaetano da Thiene, fondatore della prima congregazione moderna dei chierici regolari teatini, che proponevano vita semplice e in comune, praticando i tre voti tradizionali, vestendo come i preti, eleggendo ogni anno un superiore, senza l’obbligo della recita corale dell’ufficio, esercitando l’apostolato della predicazione, dell’istruzione religiosa, della direzione spirituale, dell’assistenza in forme diverse. Tra le loro opere sono da ricordare l’ospedale degli incurabili (1522) e l’oratorio del Divino Amore (1523).
Altro santo veneziano di questo tempo è Girolamo Miani, dedito alla cura degli orfani, raggruppandosi con i suoi collaboratori nella compagnia dei servi dei poveri.
Venezia era un punto di riferimento anche per la facilità di raggiungere l’Oriente e la Terra Santa.
Questa fu la ragione per la quale nel 1536 vi giunse Ignazio di Loyola: mentre attendeva da Parigi i suoi primi compagni per proseguire per la Terra Santa, prestava servizio agli «incurabili» e frequentava i teatini di San Nicola. Dovette invece partire per Roma l’anno successivo.
Altro movimento riformatore sorto a Venezia fu quello dei francescani cappuccini a opera fra gli altri di padre Paolo da Chioggia, con una regola stesa nel 1529 e con un primo convento veneziano iniziato tra il 1536 e il 1539.
I patriarchi di Venezia e di Aquileia con molti altri vescovi e due osservatori della Repubblica si recarono al concilio di Trento solo nell’ultimo periodo (1562-1563).
Per applicarne i decreti, furono celebrati poi diversi sinodi, ma con poche novità a eccezione di provvedimenti per il clero, concernenti la veste, il comportamento, la proibizione di portare armi o di frequentare luoghi malfamati o balli; erano ribaditi gli obblighi dei parroci; per i monasteri femminili era prevista la clausura ed erano disposte norme sull’ammissione e la sorveglianza.
Il clero veniva formato in un collegio già fondato dal patriarca Lorenzo Giustiniani per dodici chierici poveri, mentre ne esisteva un secondo, creato circa nel 1450 dalle nove congregazioni del clero, e scuole sestierali erano state erette intorno al 1520.
Con il concilio si dette molta importanza alla formazione del clero, per cui nel 1581 si fondò un seminario nella parrocchia di San Geremia, che più tardi troverà definitiva sistemazione nell’abbazia di San Cipriano di Murano. Significativo il fatto che pochi mesi più tardi anche il doge iniziasse un suo seminario per preparare il clero addetto a San Marco.
La vigilanza romana dopo il concilio si concretava nelle visite apostoliche, le cui relazioni sono documenti importanti offrendo un quadro attendibile e preciso sullo stato del patriarcato.
In quella del 1581 si insisteva perché due volte la settimana il patriarca ricevesse a Rialto sacerdoti e fedeli, perché i canonici fossero fedeli al coro, i sacerdoti osservassero le norme liturgiche e insegnassero la dottrina cristiana.
Nei sinodi diocesani del 1592 e 1594 venivano ribaditi il dovere di residenza per parroci e titolari di chiese collegiate, cultura teologica e integrità morale nel clero, scuole di dottrina cristiana.
L’attenzione alla sanità morale del clero si accompagnava all’opera delle nuove congregazioni religiose, iniziate a Venezia ben prima del concilio.
Gli ordini dei teatini, somaschi, gesuiti e cappuccini erano già presenti in città, ciascuno dei quali specializzati in un particolare settore della vita cristiana.
Venezia era dunque diventata una fucina della riforma cattolica, anche se perduravano sempre le difficoltà nei rapporti con la curia romana, dato l’intervento e la vigilanza che la Repubblica da sempre voleva avere su vita ecclesiastica, nomine patriarcali e vescovili comprese.
Il Seicento si apriva con un problema di quel tipo, quando la nomina del nuovo patriarca era avvenuta (1600), come di consueto, attraverso l’elezione («proba») in Senato, questa volta con la scelta di un laico, il senatore Matteo Zane.
L’eletto avrebbe dovuto ricevere l’approvazione pontificia e il pallio: in questo caso occorreva anche la consacrazione vescovile.
Nel clima controriformistico del momento la sede romana non transigeva sulla dottrina teologica e sul controllo del clero, a maggior ragione di un vescovo-patriarca, mentre a Venezia ciò era ritenuto un affronto.
Nello spirito tridentino il patriarca del tempo procedeva negli atti ordinari, con visita pastorale.
La relatio ad limina offre uno spaccato sulla stato morale del patriarcato: i 200.000 abitanti della città erano distribuiti in settanta parrocchie, quasi tutte collegiate, cioè con piccoli capitoli di povera condizione economica, tanto che i sacerdoti non vivevano di redditi sicuri, ma delle elemosine dei fedeli attraverso le messe manuali.
Si stabilì che i sacerdoti si dovevano preparare non più autonomamente nelle parrocchie di nascita, come si usava, bensì attraverso studi regolari e formazione adeguata nel seminario.
Le religiose erano 4000: nessuna poteva entrare prima dei dodici anni, occorreva un anno di probazione e il noviziato prima di vestire l’abito religioso; si doveva osservare la clausura e la badessa era eletta ogni tre anni.
Il patriarca era ottimista sulla religiosità della popolazione, strutturata nelle molte confraternite e nelle scuole minori, tutte dotate di buone rendite e con finalità sociali; la fede cattolica non era messa in pericolo dalle minoranze di ebrei, musulmani, protestanti; egli incrementava la vita spirituale dei fedeli curando in particolare la devozione eucaristica.
Dopo la morte del patriarca, per l’elezione per il successore, dei quattordici candidati, solo tre erano ecclesiastici e undici laici: fu eletto un laico moderato, Francesco Vendramin, che nonostante la sua amicizia personale con papa Paolo V trovò nel nuovo consultore in iure, il servita fra Paolo Sarpi, un deciso avversario del controllo romano.
Il diniego a cedere da ambedue le parti portò all’irrigidimento e quindi allo scontro, in particolare nel 1606, quando il papa lanciava l’interdetto contro la Repubblica.
Non si trattava solo dell’approvazione del nuovo patriarca; v’era anche il rifiuto da parte della Repubblica di consegnare al foro ecclesiastico due ecclesiastici rei di delitti comuni e questioni di manomorta.
A Venezia sorse allora il problema di coscienza di fronte al grave provvedimento pontificio: il clero cercò di rimanere al proprio posto a eccezione di alcuni parroci; la maggior parte del clero regolare lasciò il patriarcato.
La questione aveva anche risvolti politici, in quanto si sospettava che la tensione antiveneziana fosse alimentata dalla Spagna; le corti protestanti speravano nella frattura, a differenza della Francia che con il duca di Savoia interposero i loro buoni uffici, finché il 21 aprile 1607 venne tolto l’interdetto.
Si ritiene tuttavia che tale vicenda non abbia scalfito la pratica religiosa in città e diocesi.
Dopo la tragica pestilenza del 1630, per la quale il senato aveva proposto come voto l’erezione di un tempio alla Madonna della Salute, segno della profonda religiosità della popolazione e delle sue magistrature, nel 1639 la popolazione era scesa a 130.000 unità.
Per di più, ora si avvicinava l’altro non meno grave evento della guerra di Candia (1645-1669), quando Venezia finì col perdere l’isola, importante caposaldo nel Mediterraneo orientale.
La Chiesa era impegnata a far pregare e ad aiutare finanziariamente la Repubblica per le gravi spese che incontrava.
Era quella una buona occasione per far riammettere in città i gesuiti (1657), assenti dal tempo dell’interdetto, in quanto la loro presenza in città era importante, con la loro casa diventata centro di educazione scolastica e di spiritualità sulla linea loro consueta di puntare sull’aristocrazia, la borghesia e l’educazione del clero.
Dopo la guerra candiotta, le due nuove chiese di Santa Maria della Salute e di Santa Maria del Pianto erano ora considerate in una cornice anti-turca, dato il pericolo che Venezia doveva affrontare e al quale era costantemente attenta.
Altro elemento emergente nella spiritualità veneziana di fine secolo era il movimento quietista, che godeva a Venezia favore e sviluppo, specie nelle case dei filippini, mentre era osteggiato dai gesuiti, che a quel metodo di orazione su sfondo mistico opponevano l’attivismo devozionale della loro ascetica.
Nella ricerca di evitare gli eccessi quietistici si pongono anche il culto e la dottrina di san Francesco di Sales, al quale si stava orientando la pietà veneziana.
Nel Settecento compaiono patriarchi di un certo rilievo: viene incrementata la spiritualità ignaziana tra i sacerdoti e di riflesso anche nella cura pastorale dei fedeli.
È il secolo dell’erudizione ecclesiastica, cosicché troviamo in città, sia tra il clero secolare, come regolare, esponenti di una cultura, le cui opere sono rimaste nel tempo (Giambattista Gallicciolli, Giovanni e Nicolò Coleti, Iacopo Morelli, Flaminio Corner): il tutto considerato nella prospettiva pastorale di portare i fedeli ai fondamenti della fede e della tradizione.
La vita diocesana era elogiata per il suo fervore, a cominciare dalle confraternite che si interessavano dei poveri; lasciava invece a desiderare la disciplina dei trentacinque monasteri femminili, a differenza dei trentasei maschili.
Il fatto nuovo era rappresentato dalle missioni popolari: si trattava di una predicazione di tipo ignaziano continuata per otto giorni di seguito; i fedeli seguivano con interesse tali nuove forme di catechesi, che si opponevano all’illuminismo laicista, praticando le devozioni tipiche dell’ascetica ignaziana, con una intensa pratica dei sacramenti.
Il rinnovamento tridentino giungeva così al clero e alla popolazione cristiana.
Ai fini statistici è interessante ricordare che nel 1757 dei trentacinque monasteri femminili, dodici erano di agostiniane, dodici di benedettine, otto di francescane, uno di domenicane, uno di servite, uno di agostiniane terziarie; si aggiungeva ora quello delle orsoline di Angela Merici.
Quanto ai rapporti tra Chiesa romana e Stato veneziano, anche un pontefice giurista come Benedetto XIV trovava difficoltà a intaccare inveterati diritti della Repubblica, preferendo riconfermarle il diritto di nominare patriarchi e vescovi del dominio e cercando di limitare le sue interferenze in campo ecclesiastico.
La Repubblica si avviava intanto verso la fine.
Da parte della Chiesa v’erano poche novità normative, oltre a quelle ribadite in precedenza. Intanto, già nel 1768 cominciava a farsi sentire una politica ecclesiastica ostile al papato e alla Chiesa; anche la soppressione pontificia della Compagnia di Gesù del 1773 fu un colpo per la Chiesa veneziana, avendo tali religiosi operato in un senso positivo nella vita spirituale della città, pur se buona parte di loro rimase tra il clero secolare veneziano.
Questo era anche il tempo della diffusione delle idee gianseniste o filogianseniste, che con i finanziamenti ducali per il seminario avevano più facilità di divulgarsi tra i nuovi professori. Altre idee che si espandevano facilmente erano quelle del sinodo di Pistoia, condannate nel 1794, relative all’importanza dei parroci e alla superiorità del concilio sul papa.
Mancavano pochi anni alla fine della Repubblica e radicali cambiamenti si stavano profilando anche per la Chiesa, prima con la municipalità veneziana, nata sui principi della rivoluzione del 1789, quindi, dopo la fine, con la dominazione austriaca (1798).
Finivano allora le spogliazioni di tesori nelle chiese, la fusione dei vasi sacri, le tasse pesanti che si erano avute in precedenza: ormai tutto un nuovo movimento avrebbe radicalmente cambiato Chiesa e società civile.
Il 12 maggio 1797 cadeva la Repubblica e per la Chiesa di Venezia cominciava un periodo ancor più difficile.
Il patriarca Ludovico Flangini (1802-1804) parlò di «scellerati cittadini» che avevano messo a soqquadro diritti divini e umani.
Nel periodo napoleonico ci sarebbe stato di peggio, con profanazione, chiusura, demolizione di chiese e di luoghi di culto; arresti di sacerdoti, abbandono del loro ministero, dispute politiche nelle chiese. Il patriarca prestò allora giuramento di fedeltà al nuovo regime, rivendicando però alla Chiesa ubbidienza per fede, costumi, disciplina, cercando di temporeggiare sulla concentrazione dei monasteri femminili e riuscendo a salvare la continuità del seminario.
Durante la prima dominazione austriaca (1798-1806) gli interventi di politica ecclesiastica non furono molto significativi, a differenza di come si procedette durante il governo napoleonico (1806-1814).
Un primo provvedimento riguardò la risistemazione dei confini del patriarcato: dopo la diocesi di Iesolo (1466) furono incorporate le altre due di Torcello e di Caorle.
Si stabilì il trasferimento della cattedrale dalla sede di San Pietro di Castello a San Marco, ora non più cappella ducale e non più governata da un primicerio con giurisdizione ordinaria, trasferimento deciso nel 1807 ma attuato solo nel 1821 da Pio VII.
Maggiormente drastiche furono altre disposizioni per gli ordini religiosi, che subirono una prima concentrazione e furono spogliati dei loro beni; nel 1810 vennero poi soppressi, per cui 507 monaci e frati tornarono al paese d’origine.
Altrettanto fu per le 1130 monache e suore che non potevano ristabilire una qualunque forma di comunità e vestire l’abito religioso.
Nel 1807 furono soppresse le 339 confraternite o scuole amministrate da laici, mentre furono risparmiate le scuole del Santissimo Sacramento.
Le settanta parrocchie della città furono ridotte a quaranta e nel 1810 a trenta, con l’amministrazione affidata all’istituto della fabbriceria; la motivazione era il numero eccessivo, il cattivo stato di talune, la trasformazione in parrocchie di quelle più importanti degli ordini religiosi soppressi.
I parroci dovevano provvedere alla cura animarum, eventualmente coadiuvati da curati; i capitoli furono aboliti; venne stabilita una pensione per i preti; la formazione del clero doveva ora concentrarsi nel solo seminario patriarcale.
Al suo ritorno nel Veneto l’Austria non abrogò tali norme, salvo la soppressione degli ordini religiosi. Nell’insieme si procedette all’accentramento della vita pastorale nelle mani del parroco e nel controllo superiore dello stato che legiferava su riforme ecclesiastiche, seminario, organizzazione degli studi compresi i libri di testo.
Con la fine della Repubblica iniziava per la popolazione di Venezia un periodo di diffusa miseria: i 145.000 abitanti erano diminuiti a 100.000, le varie categorie sociali dei mestieri ridotte a un terzo; gli indigenti assistiti erano oltre la metà dei cittadini adulti (40.764).
I patriarchi e il clero se ne preoccupavano: il patriarca Giovanni Ladislao Pyrker intervenne presso l’imperatore per ottenere una serie di interventi a favore della città.
Il patriarca Jacopo Monico d’altra parte si interessò maggiormente dei futuri sacerdoti, ripristinò gli ordini contemplativi, appoggiò le scuole di carità dei fratelli Cavanis, mentre cominciavano a comparire nuove fondazioni femminili, come le dorotee.
Il numero del clero era in diminuzione: all’inizio del secolo su una popolazione di 135.000 abitanti i sacerdoti erano un migliaio; nel 1821, nella diocesi, ora di 110- 120.000 abitanti, essi erano 700 (di cui un centinaio gli ex religiosi); nel 1840 su 140.000 abitanti erano scesi a 400.
Nel 1848 la città insorse contro gli austriaci: all’inizio il patriarca Monico salutò con entusiasmo la nuova Repubblica, cambiando più tardi atteggiamento di fronte alla sfrenatezza di stampa, di parola, degli spettacoli o per gli interventi di carattere giurisdizionalista del nuovo governo.
Ci fu la stessa evoluzione nel clero veneziano con dei riflessi nella pratica religiosa dei fedeli, con un crollo, a esempio, nella pratica della confessione, che non veniva più praticata da circa la metà dei fedeli (in precedenza gli «inconfessi» erano circa un terzo); la frequenza alla dottrina cristiana era carente e così l’impegno dei sacerdoti a predicare.
Il sinodo diocesano del 1865 cercò di essere un nuovo inizio, opponendosi agli errori della modernità, esprimendo piena adesione alla Sede romana, intendendo la Chiesa come segno di unità, con una cura speciale per la formazione seminaristica.
Con la fine della nuova dominazione austriaca (1849-1866) e l’unione di Venezia al Regno d’Italia non finivano però gli atteggiamenti anticlericali, aggravati ora dall’applicazione delle nuove leggi: quella del 1866 con la cancellazione del riconoscimento giuridico delle corporazioni religiose e l’incameramento di tutti i loro beni metteva sul lastrico 544 religiose e 438 religiosi, aiutati peraltro dalla popolazione a riscattare i loro beni.
L’imposta straordinaria del trenta per cento sugli enti ecclesiastici rimasti dava loro un altro serio colpo.
Intanto si apriva la questione romana.
Il patriarca Luigi Trevisanato aveva subito riconosciuto la legittimità dello Stato unitario, invitando a votare a favore dell’unione al Regno d’Italia (1866), mentre rimaneva la sua opposizione all’ideologia e alla politica liberale.
Venezia esprimeva allora un cattolicesimo di tipo intransigente con iniziative promosse da esponenti del laicato e diffuse anche in altre regioni (società della gioventù cattolica, associazioni cattoliche, Opera dei congressi).
La pratica religiosa di fine secolo si fletteva, mentre si accentuava il problema nuovo dell’intervento o meno nelle competizioni amministrative per il governo di comune e provincia.
Fu il patriarca Giuseppe Sarto (1894-1903) a orientare in tal senso la diocesi, anche perché le varie opere fondate e promosse da religiosi o religiose avevano ormai un’accentuata dimensione sociale (opere per le fanciulle povere di don Luigi Caburlotto, per le ragazze pericolanti di Anna Maria Marovich, per l’istruzione professionale della gioventù femminile di Elena Silvestri), e così le opere sociali di don Luigi Cerutti (casse rurali, società di assicurazione ecc.).
Era una società ben diversa dalla precedente e con maggiori problemi.
Il cardinale Sarto cercò con ogni mezzo di farvi fronte, conscio che occorreva tenere fermi i principi della morale, occupandosi della vita pastorale, dando vitalità alle parrocchie per catechesi, liturgia, responsabilizzazione dei laici nella vita amministrativa.
Il 4 agosto 1903 il patriarca Sarto venne eletto sommo pontefice.
Il successore Aristide Cavallari continuò quella linea pastorale, mentre la situazione morale della diocesi peggiorava (concubinati, separazioni, parti illegittimi ecc.): penitenza e riparazione dovevano ristabilire un ordine morale carente; di qui l’importanza riservata alla quaresima, agli esercizi della Via Crucis, alle confraternite del Santissimo Sacramento.
Il movimento cattolico, nonostante lo scioglimento dell’Opera dei congressi, si affermava con varie iniziative.
L’appoggio dei cattolici veneziani alla giunta clerico-moderata del conte Grimani ottenne con successo il ripristino dell’insegnamento religioso nelle scuole elementari con possibilità di impartirlo anche da parte di sacerdoti e altre opere.
Ora la vita amministrativa e politica poneva nuovi problemi: per il patriarca Pietro La Fontaine (1915-1935) cominciarono con la prima guerra mondiale e con i disagi che la città subì per bombardamenti, accuse a preti e religiosi, cessione di case religiose all’esercito, fuga di quasi 100.000 veneziani dopo Caporetto. Le difficoltà continuarono dopo la guerra con l’avanzata dei socialisti e da parte del partito fascista. Egli invitò il clero a mantenersi al di sopra delle parti, ma per quanto il governo faceva a favore della religione, come insegnamento religioso nelle scuole, presenza di ecclesiastici nei consigli di amministrazione delle opere di carità, cappellani per reparti di partito – normativa che confluì poi nei patti lateranensi –, non poteva che dare un giudizio positivo. Negativi invece erano i suoi interventi per ostacoli e persecuzioni contro associazioni cattoliche, circoli giovanili, chiusura di patronati o mancati provvedimenti in fatto di moralità. Tutta l’azione pastorale del patriarca, stimato per santità di vita, fu improntata a grande spirito religioso con particolare amore per la liturgia (Collegium Tarsicii). Durante il suo governo ci fu un altro ridimensionamento dei confini del patriarcato.
Nel 1919 il territorio di Malamocco, già antica sede lagunare trasferita nel 1110 a Chioggia, veniva incorporato nel patriarcato.
Il governo aveva inglobato nel comune di Venezia alcuni comuni della terraferma, per cui nel febbraio 1927, con il consenso del vescovo di Treviso e del patriarca di Venezia, Pio XI univa al patriarcato undici parrocchie trevigiane della terraferma veneziana già annesse amministrativamente, con altre della zona del Brenta.
Il patriarca Adeodato Piazza (1936- 1949) si trovò nuovamente tra le difficoltà provocate ora dai rapporti col governo fascista.
Originario del Cadore ai confini settentrionali della penisola, egli sentiva vivo il nazionalismo patriottico di quelle popolazioni, mentre l’Europa veniva ora minacciata dal comunismo ateo.
Mediatore di pace, durante la seconda guerra il patriarca si adoperò per la liberazione dal carcere di detenuti politici o di soldati dal campo di concentramento, per ottenere grazie per condannati a morte, aiutare detenuti, salvare la vita a ricercati politici; egli è ricordato come uomo di dottrina e di prassi religiosa, attento ai problemi spirituali e morali del tempo, con la profonda responsabilità pastorale che lo spingeva a prendere posizioni di principio non sempre facili.
Dopo il breve patriarcato di Carlo Agostini (1949-1952), che ebbe la chiara comprensione dello sviluppo del patriarcato in terraferma e pertanto con la costruzione di nuove chiese (undici) e nuove parrocchie (quattordici), la venuta del cardinale Angelo Roncalli (1953-1958) ebbe un carattere innovatore, quantomeno per lo stile paterno innestato nella vita pastorale diocesana.
Nonostante l’età, la sua bontà si accompagnava a un attivismo di matrice lombarda: ciò non arrestava la diminuzione della frequenza a catechismo e sacramenti, l’estendersi dell’indifferentismo religioso, ma anche lo sviluppo delle nuove associazioni e organizzazioni cattoliche (Acli, Asci, Cif), la cura del piccolo clero, la diffusione della stampa cattolica.
Dopo la visita pastorale (1954), altre manifestazioni furono la missione cittadina (1955), il sinodo (1957), le celebrazioni in onore di san Lorenzo Giustiniani, la costituzione di sedici nuove parrocchie e dieci curazie autonome (su terreni acquistati dal patriarca Agostini).
Eletto sommo pontefice, con il successore Giovanni Urbani (1958-1970), veneziano, si arriva al concilio Vaticano II, cui egli partecipò, preparando la diocesi all’evento.
Già assistente centrale dell’Azione cattolica, si dedicò a diverse attività pastorali, come alla celebrazione di un congresso catechistico diocesano (1961); indisse un anno liturgico (1964); nel 1966 era nominato presidente della Conferenza episcopale italiana.
Ultimato il concilio, il patriarca ne applicò i decreti senza indulgere a spinte eccessive.
Gli ultimi patriarchi post-conciliari, il cardinale Albino Luciani (1970-1978), il cardinale Marco Cè (1978- 2001) e il cardinale Angelo Scola (2002-2011), hanno vissuto in un clima non facile, mentre aumentava la popolazione nel patriarcato, soprattutto nella terraferma a differenza del centro storico in diminuzione, con una flessione pure della pratica religiosa in ragione di un diffuso secolarismo.
Attualmente la Chiesa di Venezia – con Patriarca, dal 2012, Francesco Moraglia – è sede metropolitana della provincia ecclesiastica veneta con suffraganee le diocesi di Adria, Belluno-Feltre, Chioggia, Concordia-Pordenone, Padova, Treviso, Verona, Vicenza, Vittorio Veneto. Della regione ecclesiastica fanno parte anche le sedi arcivescovili di Gorizia e di Trento, con i rispettivi suffraganei di Trieste e di Bolzano-Bressanone.